1. Contesto storico e origini del conflitto
Fin dalle sue origini, la relazione tra Israele e Iran è stata segnata da un rapido mutamento di atteggiamenti e interessi. Prima del 1979, lo scià Mohammad Reza Pahlavi intratteneva stretti legami con Tel Aviv: Tehran acquistava armi israeliane⁺ e c’era collaborazione nei settori energia e agricoltura. Ma la Rivoluzione islamica del 1979 capovolse l’asse politico della regione, facendo dell’Iran il più accanito critico dello Stato ebraico e fondando la sua legittimità sul principio dell’anti-sionismo.
La fine del regime dello scià coincise con l’ascesa di una leadership teocratica che vide in Israele un «nemico centrale». Khomeini definì lo Stato ebraico «cancro» del Medio Oriente e invitò le nazioni arabe a rovesciarlo. Da allora nasce il concetto di “Asse della Resistenza”: Iran, Siria e Hezbollah in Libano – un sistema di alleanze ideologiche e militari finalizzato a contenere l’influenza statunitense e israeliana nella regione.
Custodi della Rivoluzione e guerra per procura
Con l’arruolamento delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC), l’Iran sviluppò fin dal 1982 una potente rete di milizie sciite in Libano, Iraq, Yemen e Siria. Hezbollah, nato nel 1985 con il sostegno finanziario e addestrativo di Tehran, divenne l’avamposto anti-israeliano di maggior impatto sul territorio libanese. Il conflitto del 2006 tra Hezbollah e Israele fu la prima guerra per procura su vasta scala: duemila razzi lanciati, oltre 1.200 vittime civili in Libano e una devastazione infrastrutturale che mise in luce la pericolosa asimmetria delle armi non convenzionali.
Parallelamente, durante la guerra in Siria (2011–), le IRGC affinarono la logistica per il trasferimento di armi sofisticate da Iran a Hezbollah via Iraq e Siria orientale. Israele reagì con decine di raid aerei contro depositi e colonne di camion — un chiaro segnale: nessuna linea di rifornimento sciita sarebbe rimasta intoccabile.
La corsa al nucleare e la dottrina “first strike”
Negli anni 2000 Teheran avviò un programma nucleare controverso, sostenendo finalità civili, mentre numerose intelligence occidentali e israeliane ne temevano l’uso bellico. L’Operazione “Stuxnet” del 2010, un attacco informatico attribuito a Stati Uniti e Israele, rallentò per qualche anno gli arricchitori centrifughi iraniani. Ma il progetto non fu mai cancellato.
Di fronte allo spettro nucleare, Gerusalemme elaborò una dottrina di deterrenza basata su un possibile “first strike” per neutralizzare centrifughe e depositi prima che l’Iran raggiungesse la soglia di armi atomiche. Questa strategia, mai resa pubblica nei dettagli, ha contribuito a un clima di tensione latente: da un lato Teheran continua a spingere sul nucleare; dall’altro Tel Aviv non esclude un’azione militare preventiva.
Fattori ideologici e nazionalisti
Non si può ignorare il forte elemento ideologico che anima il governo iraniano. La propaganda d’oltregolfo ritrae Israele come creatura occidentale illegittima e ostile ai popoli arabi — uno specchio in cui proiettare rancori post-coloniali. Sul versante israeliano, invece, si alimenta un nazionalismo di difesa esistenziale: l’idea che uno Stato ebraico privo di deterrenza rischierebbe di essere attaccato su più fronti. Questa reciproca demonizzazione ha cementato un blocco di percezioni impossibile da scalfire senza un atto politico epocale.
Il contesto regionale più ampio
La guerra in Ucraina, i cambiamenti nei prezzi del petrolio e la competizione fra grandi potenze (USA, Russia, Cina) hanno aggiunto complessità allo scontro Israele-Iran. Teheran ha colto l’occasione per espandere la sua influenza militare via proxy, mentre Tel Aviv si è avvicinata a nuovi partner (Azerbaigian, Stati del Golfo) pur rimanendo fedele al patto di difesa con Washington. Ciò ha trasformato il teatro mediorientale in un crocevia dove si intrecciano guerre per procura, rivalità energetiche e strategie di grande potenza.
2. Le prime fasi: tentativi di intimidazione e attacchi “ibridi”
Subito dopo la crisi nucleare degli anni Duemila, Israele e Iran entrarono in una fase di “guerra fredda avanzata”, caratterizzata non da grandi campagne di terra, ma da mosse calibrate per sondare la risposta avversaria. Questi tentativi di intimidazione e attacchi “ibridi” – che combinano strumenti convenzionali e non convenzionali – hanno segnato le prime fasi dello scontro diretto.
2.1 L’attacco iraniano del 13 aprile 2024
Nella notte del 13 aprile 2024, per la prima volta l’Iran lanciò oltre 300 ordigni (missili balistici e droni) contro obiettivi israeliani all’interno dei confini nazionali. Secondo Teheran fu una rappresaglia per il raid aereo israeliano dell’1 aprile su Damasco, che aveva colpito l’ambasciata iraniana e causato la morte di alti ufficiali dei Guardiani della Rivoluzione. Il bilancio materiale si rivelò però trascurabile: grazie al sistema Iron Dome e al contributo di intercettazioni lanciate da navi statunitensi nel Mediterraneo, il 99% dei bersagli fu neutralizzato. L’azione aveva soprattutto un valore politico-simbolico, volto a mostrare che l’Iran poteva colpire direttamente Israele senza passare per proxy regionali.
2.2 Drappelli di droni e guerra cibernetica
Questo attacco su larga scala fu preceduto da anni di schermaglie inedite. – Negli anni 2010, l’Operazione Stuxnet (attribuita a Tel Aviv e Washington) aveva compromesso per mesi le centrifughe iraniane, dimostrando il potenziale distruttivo del cyberwarfare. – A partire dal 2020, Teheran rispose con attacchi informatici su infrastrutture energetiche israeliane, provocando blackout e rallentamenti nei sistemi di approvvigionamento idrico. – Contestualmente, furono impiegati sciami di droni a lungo raggio (addirittura mascherati da semplici aerei cargo) che penetrarono per brevi istanti lo spazio aereo israeliano, sfidando l’efficacia di radar e contromisure elettroniche.
L’impiego simultaneo di cyberattacchi e droni dimostrava come l’Iran stesse perfezionando una dottrina di guerra “ibrida”, capace di combinare mezzi economici con effetti moltiplicatori: colpire più bersagli, in modo coordinato, senza scatenare una guerra convenzionale a tutto campo.
2.3 Il ricorso alle milizie proxy
Mentre provava la tenuta delle difese israeliane, Teheran intensificò il supporto ai propri alleati non statali:
- Hezbollah (Libano): fu armata con droni kamikaze e razzi precision-guided in grado di forzare persino il sistema Iron Dome attraverso brevi raffiche concentrate.
- Milizie sciite in Iraq: Kataib Hezbollah e Asaib Ahl al-Haq lanciarono razzi a medio raggio verso basi israeliane in territorio siriano e giordano, creando false emergenze e costringendo Israele a mantenere unità in costante mobilitazione.
- Houthi (Yemen): pur molto più lontane dal fronte mediorientale, le loro azioni contro navi commerciali nel Mar Rosso intendevano mettere pressione sui prezzi del petrolio, minando indirettamente l’economia israeliana e alimentando l’instabilità globale.
Queste operazioni sincronizzate furono tese a diluire la responsabilità di Teheran, generando confusione e rallentando le decisioni strategiche di Tel Aviv.
2.4 L’operazione “Giorni di pentimento” (ottobre 2024)
In risposta a un raid aereo iraniano contro un deposito di bombe bunker-buster israeliane, Gerusalemme pianificò l’Operazione “Giorni di pentimento”:
- Schierò circa 100 velivoli (F-15, F-16CJ e F-35 Adir) in tre ondate notturne, con supporto logistico americano da KC-135 e KC-46 in Europa e nel Mediterraneo.
- Il primo obiettivo fu neutralizzare le difese S-300 iraniane e i radar terrestri, creando corridoi di penetrazione sicura.
- Furono colpiti 20 siti strategici in province come Tehran, Ilam e Khuzestan: depositi di missili balistici, centri di ricerca droni e complessi di produzione di armi avanzate.
- Preliminarmente, Israele comunicò attraverso canali terzi la lista degli obiettivi, riducendo il rischio di escalation incontrollata.
Il risultato fu duplice: da un lato, la campagna mise in crisi le capacità difensive iraniane; dall’altro, inviò un segnale di volontà d’acciaio, confermando che Israele poteva colpire nel profondo del territorio nemico.
2.5 La reazione mediatica e diplomatica
Generalmente, entrambe le potenze hanno evitato di pubblicizzare i propri attacchi nella loro interezza.
- Iran: enfatizzò le “vittorie simboliche” del 13 aprile, con manifestazioni di piazza a Tehran, ma minimizzò i danni reali in patria per non mostrare debolezza interna.
- Israele: mantenne un rigoroso “silenzio operativo” sull’Operazione “Giorni di pentimento”, divulgando solo immagini selezionate dei danni inflitti e degli aerei in volo.
A livello internazionale, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia invitarono alla moderazione, mentre Russia e Cina denunciarono ogni “atto di aggressione” e chiesero summit di emergenza alle Nazioni Unite. Le Nazioni Unite stesse crearono un gruppo di inchiesta sui crimini di guerra ibridi, senza però riuscire a sbloccare una vera de-escalation.
3. Escalation militare convenzionale e dissuasione strategica
Dopo le fasi ibride, dal 12 al 13 giugno 2025 Israele lanciò l’Operazione “Rising Lion”, un massiccio attacco aereo con circa 200 caccia (F-15, F-16CJ e F-35) che colpirono in un’unica notte oltre 100 siti militari e nucleari iraniani, tra centrifughe, depositi di missili e accademie scientifiche⁺. Secondo le fonti israeliane furono sganciate più di 300 bombe ad alta precisione, con l’obiettivo di “decapitare” la catena di comando – inclusi il comandante delle IRGC Hossein Salami e il capo di Stato Maggiore Mohammad Bagheri – eliminando al contempo diverse decine di scienziati del programma nucleare⁺. L’Iran rispose con ondate di droni e missili balistici diretti contro Tel Aviv, Gerusalemme e Haifa, intercettati perlopiù dai sistemi Iron Dome, Arrow 3 e David’s Sling⁺.
Questa “escalation controllata” rientra nella dottrina israeliana di escalation dominance: innalzare il livello dello scontro fino a un punto in cui l’avversario non può replicare in modo sostenibile. Assassini mirati, sabotaggi cibernetici e raid chirurgici nel cuore delle infrastrutture iraniane hanno indebolito la deterrenza convenzionale di Teheran, ma hanno al tempo stesso messo a nudo la fragilità di una strategia basata su una rapida vittoria sui due fronti – militare e diplomatico⁺.
Dal canto suo, l’Iran ha mostrato di poter mobilitare decine di missili balistici e sciami di droni kamikaze, in parte lanciati da basi in Iraq e Siria, forzando periodicamente le difese israeliane e provocando blackout elettrici e danni minori all’industria⁺. Le esercitazioni nello Stretto di Hormuz, con la simulazione di un blocco navale, hanno infine ribadito che Teheran è pronta a usare anche la leva economica–energetica in caso di guerra prolungata⁺.
Infine, il confronto convenzionale ha visto un’importante componente di sostegno alle intelligence: intercettazioni satellitari, agenti infiltrati e attacchi informatici hanno agito da “forza moltiplicatrice”, permettendo a entrambi i contendenti di colpire con efficacia selettiva e di evitare al contempo uno scontro di massa che rischierebbe di sfuggire al controllo⁺.
4. Impatto economico, sociale e umanitario
– Vittime e feriti: in Israele il Ministero della Salute confermò 15 morti e oltre 385 feriti, principalmente civili rimasti intrappolati negli edifici colpiti da detriti e schegge⁺. In Iran le autorità non hanno mai fornito un bilancio ufficiale, ma organizzazioni internazionali stimano alcune decine di vittime e centinaia di feriti nei centri urbani.
– Danni infrastrutturali: grazie alle difese antimissile israeliane le perdite materiali sul lato ebraico sono rimaste limitate a impianti industriali e a strutture civili di prima necessità, mentre in molte province iraniane (Tehran, Esfahan, Khuzestan) sono stati colpiti depositi di carburante, reti elettriche e impianti idrici.
– Sfollamenti e crisi umanitaria: in Israele migliaia di famiglie delle zone sud e centrali sono state evacuate verso rifugi antiaerei, generando code e problemi di approvvigionamento alimentare. In Iran si registrano flussi di sfollati interni dalle aree colpite verso regioni meridionali, dove ONG come Croce Rossa e Unicef hanno aperto centri di accoglienza.
– Salute mentale e trauma collettivo: ONG israeliane e iraniane denunciano un’impennata di casi di stress post-traumatico, soprattutto tra i più giovani costretti a passare giorni in rifugi sotterranei. Le scuole hanno dovuto attivare programmi di supporto psicologico d’emergenza.
– Effetti sui mercati globali: la notizia dell’attacco e della controffensiva iraniana fece schizzare il prezzo del petrolio oltre i 100 $ al barile, con picchi di +12 % nelle borse di Tokyo e +8 % a Francoforte⁺. L’instabilità dei passaggi marittimi (Hormuz e Bab el-Mandeb) alimentò timori di scarsità energetica e spinse i governi occidentali a riattivare riserve strategiche.
– Coordinamento umanitario internazionale: l’ONU ha lanciato un appello per 300 milioni di dollari, finalizzati a fornire capi di abbigliamento invernale, kit sanitari e carburante per generatori nei mesi a venire. Diverse ONG italiane stanno organizzando convogli di aiuti verso i Paesi del Golfo, da dove verranno poi smistati ai centri di crisi.
5. Conseguenze geopolitiche e coinvolgimento di attori terzi
- Stati Uniti e NATO – Pur non partecipando direttamente, Washington ha fornito supporto logistico e intelligence a Israele, mentre la NATO ha rafforzato la presenza navale nel Mediterraneo orientale per garantire la libertà di navigazione⁺. – A livello diplomatico, gli USA hanno condannato l’uso della forza iraniano-israeliana ma hanno escluso sanzioni aggiuntive contro lo Stato ebraico.
- Unione Europea – Berlino e Parigi hanno chiesto moderazione e riapertura dei negoziati sul nucleare, ma hanno evitato condanne nette verso Israele per non indebolire l’asse occidentale sul piano energetico.
- Russia e Cina – Mosca e Pechino, pur deplorando l’aggressione unilaterale, hanno mantenuto un profilo ambiguo, invocando summit Onu e sottolineando il diritto iraniano all’energia atomica civile⁺. – Dietro le quinte, la Russia ha offerto a Teheran sistemi missilistici S-400 per riallineare il rapporto di forza con Israele.
- Paesi del Golfo e Turchia – Emirati, Arabia Saudita e Giordania temono un nuovo caos petrolifero e rafforzano i propri accordi di difesa con Washington, mentre Ankara media tra le parti per garantire corridoi umanitari.
- Milizie e proxy – Hezbollah resta in allerta sul confine libanese, pronto a riaprire il fronte nord-israeliano se Teheran lo richiederà. – I ribelli Houthi cercano di imporre un embargo navale sul passaggio di petrolio verso Suez, estendendo l’area di crisi fino al Mar Rosso.
- Nazioni Unite – Il Consiglio di Sicurezza è paralizzato dalla contrapposizione tra Usa e Russia, ma l’Assemblea Generale ha creato un gruppo di inchiesta per studiare gli “atti di guerra ibrida” e valutare crimini contro civili.
6. Scenari futuri e possibili vie diplomatiche d’uscita
- Escalation limitata – Israele continuerà la sua dottrina di “colpi mirati”, puntando a degradare ulteriormente il programma nucleare iraniano senza scatenare uno scontro totale. – L’Iran si accontenterà di attacchi cibernetici e proxy per mantenere una facciata di forza interna⁺.
- De-escalation negoziata – Un “scambio” potrebbe prevedere: • Ritiro delle minacce esplicite di annientamento da entrambe le parti; • Impegno di Israele a sospendere le campagne mediatiche contro Gaza in cambio di una pausa iraniana sul supporto militare a Hamas e Hezbollah⁺; • Rilancio del trattato sul nucleare con garanzie europee e cinesi.
- Coinvolgimento multilaterale – Proposta di conferenza internazionale (USA, UE, Russia, Cina, Paesi del Golfo) per un “Accordo di Sicurezza Mediorientale” che includa: • Zone demilitarizzate lungo i confini israeliani; • Sistema di allerta rapido per attacchi cibernetici; • Controlli ispettivi condivisi sugli impianti atomici.
- Rischio guerra aperta – Se uno dei due contendenti scatenasse un’offensiva di terra o inviassero truppe in Siria/Libano, la probabilità di un conflitto regionale su scala più ampia salirebbe drasticamente.
- Mediatore d’oro – L’Italia potrebbe giocare un ruolo da “facilitatore” grazie ai buoni rapporti sia con Gerusalemme sia con Teheran, offrendo garanzie economiche per la ricostruzione e stanziando fondi per la creazione di una “task force” di monitoraggio.